Knaller an der Zeitungsfront

Saturday, July 07, 2007

Pessotto: "Vi racconto mio viaggio nel dolore"

L'ex calciatore della Juventus parla un anno dopo il tentato suicidio"Il vero nemico è la solitudine, ora ho ripreso a vivere"
Pessotto: "Vi raccontoil mio viaggio nel dolore"
di MAURIZIO CROSETTI
Pessotto: "Vi raccontoil mio viaggio nel dolore"'

TORINO - È impossibile non guardare in alto, non guardare quel tetto. Oppure il piccolo cortile, sotto. Un anno dopo, Gianluca Pessotto entra ed esce di qui ogni giorno, dentro la palazzina gialla c'è il suo ufficio, è la sede della Juventus. Sul muro accanto alla scrivania, i disegni di Federica e Benedetta, le figlie. Qualche coppa, il telefonino, la carta geografica del mondo sull'altra parete, le stampelle in un angolo: servono ancora, perché Gianluca è stato appena operato al piede destro. Dal gesso sbucano le dita, sotto la scrivania. Lui sorride.

Come ti senti?
"Bene, grazie. Dovevamo ancora rimettere un po' in sesto questo piede abbastanza malmesso, ho letto la cartella clinica con l'elenco dei problemi, non c'era spazio per aggiungere neanche una riga. Come mi dicono dall'inizio, sono interventi nell'ottica di migliorare la qualità della vita. A me basterebbe togliere il dolore".

Hai tenuto il conto delle operazioni? "Dunque, prima il bacino, poi il piede, poi la schiena e poi ancora il piede. Sì, direi quattro interventi".

Ricordi il giorno in cui hai ripreso a camminare?
"Era il 30 settembre 2006 e c'era il pubblico delle grandi occasioni. Medici, parenti, infermieri. Mi hanno fatto un fragoroso applauso, anche se camminare è una parola grossa: mi sembrava che nulla del mio corpo reggesse. Il pubblico faceva il tifo, come quella sera del rigore nella finale di Champions League a Roma, ecco".

Il primo passo di una seconda vita: è retorico, se diciamo così?
"No, è vero. Nessuno di noi ricorda la prima volta che camminò, da piccolo, però io sono sicuro che avevo la stessa paura, lo stesso desiderio di scoprire, di andare".

Mai temuto di restare paralizzato?
"Quello no. Ha prevalso la gioia di esserci, di sentirmi ancora vivo e con un corpo a disposizione. Se quel corpo fosse rimasto menomato, pazienza. E' stata una faticaccia, non una favola".

Ricordi qualcosa del 27 giugno 2006, il giorno della caduta?
"Niente, buio totale. Però ricordo gli attimi in cui pensavo di essere morto, cioè quasi morto. Al pronto soccorso, credo, oppure nei momenti di veglia durante il coma farmacologico. Il corpo se ne andava, lo sentivo andare. Sapevo che stavo per addormentarmi e che non mi sarei svegliato mai più".

Invece cos'è successo quando hai riaperto gli occhi?
"Ero pieno di fili, di tubi, di ferri. Non potevo parlare perché mi avevano fatto la tracheotomia. Ho trascorso tre mesi come una pianta dentro un vaso. Tre mesi da neonato assoluto: cambiato, svestito, lavato, girato e rigirato. In quelle condizioni vinci i tabù di qualsiasi tipo. Però, appena sei presente a te stesso pensi che tutto quello che hai è guadagnato, ogni gesto, ogni respiro in più. E sei felice".

Come hai saputo del tentato suicidio? "Una storia strana, persino buffa. C'era il divieto assoluto di dirmi la verità. Io ero a letto, immobile, nei giorni della sentenza di Calciopoli: volevo sapere, eppure il televisore restava sempre spento, e zero giornali. Pensavo: o mi sono schiantato in auto, oppure ho fatto qualcosa di brutto. L'ipotesi c'era, una su due, non si scappava. Tutti mi parlavano di macchine, così credevo davvero di avere avuto un incidente".

Un segreto del genere non si mantiene a lungo.
"Ogni giorno c'era il colloquio con lo psichiatra. Siccome mi ritengo una persona di media intelligenza, un piccolo dubbio affiorava. Voglio dire: mica mi mandavano l'ortopedico. Così, presi coraggio e chiesi: che ho fatto? Cosa mi è successo? Il professor Munno mi rispose che sccccccch, ero volato giù dalla sede della Juve". Gianluca mima il gesto, e sorride. "Ho imparato a scherzarci, veramente".

Come reagisti a caldo?
"Senza mangiare per due giorni. Crisi totale. Anche perché non avevo e non ho ricordi del volo, anzi di nessun momento di quella giornata, però il dolore che provavo prima, nell'anima, quello sì lo ricordo e lo ricordavo alla perfezione. Un buio tremendo, senza speranza. La solitudine più profonda che si possa immaginare".

Davvero non avevi sospettato niente?
"Volevo vedere il gran premio di Formula uno in tivù e le partite dei mondiali. Venni a sapere che l'Italia aveva vinto. La tele, sempre spenta. Finalmente ottenni di guardare i servizi sulla sentenza di Calciopoli che riguardava la Juve: tutti pregavano che non si facesse cenno alla mia vicenda, e così andò. Ma io sono abituato a smanettare col televideo, così andai alla pagina delle notizie sportive e lessi la mia".

Come hai fatto a non scoprire tutto da solo?
"Stranissimo: la notizia parlava delle mie condizioni fisiche, non del fatto. Il professor Donadio, il primario di rianimazione, usava una curiosa metafora sportiva per spiegare come stessi. Diceva che è come essere arrivati quasi in cima alla salita, si vede il traguardo però la strada resta insidiosa e piena di curve. Perciò mi convinsi di essermi schiantato in auto. A pensarci, è da ridere".

Ricordi il giorno in cui tornasti a parlare?
"Era il 16 luglio. I medici mi tolsero la cannula e mi chiesero di pronunciare il mio nome, visto che erano stufi di pronunciarlo loro. Io dissi "Gianluca"".

La vita, dopo, come funziona?
"Con l'amore degli altri, con le tonnellate d'amore che ti rovesciano addosso. E non solo i tuoi cari, le tue bimbe, anche gli sconosciuti che t'incontrano per strada e ti dicono di essere contenti perché sei vivo. E neanche uno ti giudica".

Quali sono i tuoi sogni?
"Regalare tutto il tempo che ho alle mie figlie. E dal punto di vista sportivo, assistere alla rinascita della Juve, vederla rivincere lo scudetto e tornare in Europa. In fondo un anno fa era quasi in fin di vita, come me".

Esiste il momento preciso della rinascita?
"A Natale sono stato in Uruguay, dal mio amico Paolo Montero. Dopo l'incidente, era rimasto a vegliarmi accanto al letto per due settimane. Quando sono stato da lui e l'ho abbracciato, è stato come se avessi abbracciato tutti coloro che mi erano stati vicino".

Ricordi quando ti portarono la Coppa del mondo in ospedale?
"Scene pazzesche, c'erano i malati sulle scale con le flebo nelle braccia, tutti volevano toccare il trofeo. La sera avevo 41 di febbre".

Adesso come ti senti dentro?
"Come un astronauta tornato da un viaggio fantastico e un po' mostruoso. Gli alieni stavano per divorarmi, invece sono ancora qui. Però diverso, cambiato. Mi curo, sono in analisi, lavoro su me stesso e non me ne vergogno".

Cosa c'è di diverso veramente?
"E' sparita l'angoscia che mi mangiava e m'impediva persino di respirare. E' scomparsa la paura del futuro e della morte. Mi sento liberato da un peso immane: è stato un viaggio nel paese del dolore".

Come si torna da quelle terre, e perché?
"Per benedire ogni giorno in più che respiri. La vita è un dono unico: per me, è stato doppio. La prima notte, i medici erano quasi sicuri di perdermi perché non coagulavo più. Il vero nemico è la solitudine, è come quando percorri i trenta metri verso il dischetto del rigore, solo che se sbagli il tiro muori. Ma se invece fai gol, la carica che ti resta dentro è enorme. Diventi più allegro, anche. Più spiritoso".

Riesci a scherzare sulla tua vicenda?
"Quando qualcuno mi dice "va bene, dài, buttiamoci", rispondo che normalmente mi butto solo io. Oppure, ho fatto i complimenti a un amico che mi ha regalato un libro su un tizio che alla fine si suicida. Beh, il mio amico non lo sapeva".

Come credi di esserti salvato?
"Forse una mano dall'alto mi ha preso per i pochi capelli che avevo".

Ci pensi spesso?
"No, ci penso sempre". (4 luglio 2007)

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